E se c’ero dormivo

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Nelle ultime settimane si è parlato tanto di rifiuti tossici, Terra dei fuochi, trattative Stato-Mafia. Proprio perché di recente sono state rese pubbliche le dichiarazioni del boss pentito dei Casalesi, Carmine Schiavone, sullo smaltimento illegale dei rifiuti tossici e radioattivi che avvelenano il casertano e che alimentano i profitti del buisness dell’ecomafia. Per evitare elevati costi di smaltimento si ricorre a metodi illegali. Così, si sotterrano o si bruciano rifiuti di ogni genere. Tutto è dato alle fiamme. E la terra si trasforma letteralmente in Terra dei fuochi e diventa un inferno, sia sopra che sotto.

Le parole del boss, pronunciate nel ’97 davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo rifiuti, erano coperte da segreto di stato e solo qualche giorno fa sono state portate alla luce. Le Iene lo hanno spiegato bene in questo servizio.

Sì, proprio così: lo stato (con Napolitano come ministro dell’Interno) nel ’97 appose il segreto di stato ai documenti di Schiavone contenenti le confessioni sui rifiuti seppelliti in Campania. Dichiarazioni tipo «tra vent’anni moriranno tutti di cancro». Ma si sbagliava. Come ha detto Saviano, «gli abitanti della Terra dei fuochi sono già morti. Civilmente morti».

Tante le responsabilità politiche e giudiziarie di questo disastro ambientale (e umano), ma la cosa che fa inorridire di più è il comportamento dello stato. Quello che prima si chiamava stato interventista adesso si potrebbe meglio chiamare stato assenteista. Sì, perché è un’istituzione ferma, immobile, che non agisce per risolvere la situazione. Anzi peggio. Mette tutto a tacere.

È un po’ come se ci dicessero: «Andate via signori, non c’è niente da vedere», e intanto gente innocente muore di tumore. È la politica del “non vedo, non sento, non parlo”. O del “non c’ero e se c’ero dormivo”. Così, l’omertà dilaga e la nostra fiducia nelle istituzioni sprofonda.

Ma perché? Perché privano ogni cittadino del diritto ad essere informato? Come mai viene sempre messo tutto a tacere? Ciò che serve, prima di tutto, è una comunicazione diversa, chiara e trasparente. In tal modo, oltre al rispetto della Costituzione, si otterrebbe un punto di partenza per combattere l’illegalità di questo Paese malato. Un Paese nel quale l’eroe si allea con il nemico. È la famigerata trattativa tra Stato e Mafia, due facce della stessa medaglia. Un’alleanza che diventa il simbolo (e l’ossimoro) più doloroso che incatena il Paese al suolo. E lo avvelena.

Proprio ieri, però, sembra che qualcosa si sia mosso. Per la prima volta le istituzioni nazionali hanno affrontato l’emergenza Terra dei fuochi. Tre i punti principali del nuovo decreto legge: 1) bruciare rifiuti è reato e chi appicca roghi a cumuli di rifiuti tossici abbandonati rischia da due a cinque anni di carcere. 2) Se non viene consentito all’autorità giudiziaria di effettuare controlli, i terreni verranno catalogati come zone no-food. 3) Infine, sono destinati 600 milioni di euro alla bonifica dei territori.

E finalmente. Finalmente la Terra dei fuochi può riprendersi, se non un presente, almeno un futuro dignitoso.

#Decadenza in 10 tweet

Non basta dire basta

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Le primarie per scegliere il nuovo segretario del Partito Democratico si terranno l’8 dicembre in tutta Italia. E Matteo Renzi ha già iniziato la sua campagna elettorale per affrontare questa «sfida molto affascinante» che racconterà durante le sue tappe (niente camper stavolta, dice che ha mal di schiena), perché vuole ottenere «un’Italia che cambia verso», come scrive nella sua enews.

E ovviamente non mancano gli slogan e i giochi di parole, tanto cari a Renzi (lo dice lui stesso in una recente intervista condotta da Massimo Gramellini «Come mai a vent’anni partecipò alla Ruota della Fortuna? Adoro i giochi di parole»). Ed eccovi servito lo slogan: “L’Italia cambia verso”. Semplice, chiaro e facilmente memorizzabile. Sì, tutto giusto, d’altronde uno slogan è così che deve essere! Ma guardando la messa in grafica di quanto appena detto, forse non valgono più le stesse osservazioni. Infatti, la campagna lanciata in rete è formata da 8 immagini in cui Renzi pone una serie di problemi ai quali la sinistra deve saper dare delle risposte. Le parole negative si leggono al contrario (da destra verso sinistra), mentre la risposta a questi problemi è scritta come di norma e, dunque, più facile da leggere. Non manca poi la firma “Renzi”, ma con la prima lettera a forma di freccia (sembra l’invito a prendere una rotonda contromano o il simbolo del riciclaggio o del refresh dei nostri PC) e l’immancabile hashtag per Twitter #cambiaverso (l’hashtag fa cool!).

Eppure i concetti renziani sono davvero semplificati, perché si riduce tutto a una dicotomia, a due termini messi in contrapposizione (burocrazia VS semplicità, conservazione VS futuro, raccomandati VS bravi, perdere bene VS vincere, lamentarsi VS cambiare, paura VS coraggio, il Palazzo VS la strada, il Cavaliere VS gli italiani). Ma guardando le grafiche il lettore deve soffermarsi, deve fare uno sforzo cognitivo per riuscire a leggere quelle parole al contrario e analizzare l’informazione. Non è una lettura immediata. Se davvero vuoi capirne il significato devi prenderti un attimo, fermarti e leggere con attenzione. Non puoi dare un’occhiata en passant mentre stai facendo altro.

Insomma, il giochino che l’elettore deve capire è il richiamo al cambiamento, al rinnovamento e al cambio di rotta che Renzi si auspica per tutta l’Italia per dire basta agli ultimi monotoni vent’anni. Mettiamo che l’elettore riesca a capire nell’immediato il messaggio. Mettiamo che riesca anche ad evitare un crampo mentale mentre cerca di leggere le parole al contrario. Mettiamo che per un attimo dimentichi l’amara politica italiana e trovi gradevoli i giochi di parole.

Oppure no. Mettiamo che l’elettore sia stanco di tutti questi giochini. Ecco, è qui che sorgono i problemi. Si sa, la comunicazione politica è fatta anche di immagine. Ma questa non serve a niente se manca tutto il resto. Allora adesso uno slogan lo suggerisco io: non basta dire basta.

Questo articolo è stato pubblicato anche su 055firenze.it.

Berlusconi, il ritorno

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Ci sarebbero tanti elementi da poter discutere per poter analizzare al meglio il discorso fatto ieri da Silvio Berlusconi per rilanciare Forza Italia. Ho quindi cercato di riassumerli in questo elenco:

  • Incipit: siamo amici, siamo come una grande famiglia, ci vogliamo tutti bene.
  • Equazione del benessere: liberalismo = «meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse».
  • Sinistra (il male) VS destra (il bene). Contrapposizione dicotomica nemici VS amici. Un soggetto si contrappone a un anti-soggetto per rendere la narrazione più semplice da capire/ricordare (ma in questo modo se ne limita la comprensione).
  • Le tasse sono un «bombardamento fiscale». Metafora della guerra, dunque negativa.
  • Noi inclusivo: «siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti», «(crisi) che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro», «(tassazione che) sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese». Siamo tutti sulla stessa barca, siamo uniti in questo momento difficile.
  • Magistratura: aiutante dell’anti-soggetto, cioè della sinistra: «Questa magistratura […] credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra».
  • «Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo»: scesa in campo dell’eroe, del paladino chiamato dai cittadini per risollevare il Paese. Richiamo al mondo del calcio (“scendere in campo”).
  • «Ero io»: etica della responsabilità e stile soggettivante (proietta nel discorso parte della sua identità, l’enunciatore si manifesta in modo più marcato ed esplicito).
  • Dichiarazione pubblica di innocenza (è entrato in casa di milioni di italiani a reti unificate, doveva dirlo): «Io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente».
  • «E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato»: immagine del politico tutto fare (politico, uomo d’affari, sportivo, ecc. Mentre le foto incorniciate dietro di sé con figli e nipoti ci ricordano che è anche un buon marito e un padre di famiglia).
  • Call to action, chiamata dei cittadini all’azione, mobilitazione delle masse: «Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica». Enfasi sul destinatario (reiterazione del “voi”).
  • «Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati»: senso di responsabilità, dover fare.
  • Noi inclusivo e appello a ribellarsi: «È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire».
  • Forza Italia: valorizzata euforicamente con nomi e aggettivi positivi.
  • «Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia» e lo dice con l’indice verso la telecamera, a mo’ di Zio Sam (per ridurre la distanza emittente-destinatari).
  • «Diventa anche tu un missionario di libertà»: arruolamento nell’esercito di Silvio («I want you», vedi punto precedente).
  • «Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no»: B. si mostra come un padre protettore (o è una minaccia?!).
  • Nota finale: «Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero»: tema religioso per strizzare l’occhio anche all’elettorato cattolico.

Cosa c’è di nuovo? Niente! I concetti, le frasi e gli slogan sono sempre gli stessi. La faccia (tirata dai lifting) pure! I soliti ingredienti triti e ritriti di vent’anni fa. Ed è proprio su questo che fa leva Berlusconi, sull’inguaribile Italia nostalgica. Il ritorno del passato, soprattutto nei momenti di crisi e in un Paese composto per lo più da anziani, è rassicurante. Far resuscitare Forza Italia, far rivivere un partito del passato, richiama la nostalgia dei bei tempi andati. «Si stava meglio quando si stava peggio», dicono i nostri nonni.

E allora ti fermi un attimo a pensare, sospiri e ti accorgi che tutto sommato non è poi cambiato molto rispetto a vent’anni fa. Ma in fin dei conti sai che «the show must go on»… nonostante tu conosca già tutte le battute.

Auto usata

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Pochi giorni fa Demos ha condotto un sondaggio per il quotidiano La Repubblica sul clima politico italiano e sugli orientamenti elettorali. Dalle percentuali emerge che Matteo Renzi si colloca al primo posto nelle preferenze degli italiani: il 32,8% lo vorrebbe come prossimo Presidente del Consiglio. Alle sue spalle Enrico Letta con il 17,2%, seguono Silvio Berlusconi (8,1%), Mario Monti (6,7%), Angelino Alfano (6,6%) e infine Beppe Grillo (4,5%).

Ma cosa ha portato gli elettori a preferire un politico rispetto a un altro? Naturalmente la risposta dipende in gran parte dalle caratteristiche che compongono il leader (la sua immagine, le sue doti comunicative, le sue azioni concrete, le sue competenze, il suo sapere, il suo carisma, ecc.). C’è però da aggiungere che tutta la partita si gioca sul piano della credibilità e della fiducia che l’opinione pubblica ripone nella propria “guida”.

Il tema della fiducia è un elemento essenziale del rapporto tra politica e cittadinanza. È certamente importante credere a “ciò che dice qualcuno”, ma oggigiorno si è più portati a credere (o non credere) a “colui che dice qualcosa”, perché ci si basa sulla coerenza e la credibilità che quel leader politico veicola attraverso la sua immagine e, sulle basi di questo, formuliamo previsioni su come si comporterà o giudizi con cui interpretare il suo frame di riferimento, la sua cornice di senso allʼinterno della quale agirà e grazie alla quale possiamo comprendere i suoi comportamenti e fare inferenze sulla sua identità. Ed e proprio grazie a questa relazione diretta e personale del politico con i cittadini che si contratta la fiducia di questʼultimi.

La credibilità dipende da diverse componenti che il politico cerca di sostenere (soprattutto in campagna elettorale) per poter mantenere la legittimazione del proprio ruolo. Le ho riassunte di seguito.

1) Attendibilità: il politico sa fare il suo mestiere e sa risolvere i problemi? Ci sono prove verificabili?

2) Responsabilità: il politico è capace di realizzare praticamente quello che propone? Agisce per il bene della comunità?

3) Affidabilità: qual è il rapporto tra politico ed elettori? Il politico tiene davvero a ciò che dice o lo dice solo per convincere gli elettori?

4) Reputazione: posso fidarmi di questo politico? Posso certificarne lʼautorevolezza?

In poche parole, i cittadini non dovrebbero far altro che rispondere alla domanda: «Comprereste unʼauto usata da questʼuomo?». Domanda diventata famosa nella storia dalla campagna elettorale statunitense Kennedy vs Nixon per misurare la fiducia che lʼelettorato riponeva nei politici.

Riportando tutto quanto detto al panorama politico italiano attuale… voi, da chi comprereste l’auto usata?! Forse i mezzi pubblici sono l’unica alternativa attualmente possibile.

(Questo articolo, un po’ modificato, è stato pubblicato anche su 055firenze.it)

Le isotopie del linguaggio politico

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Quali sono le parole chiave della politica italiana? Ce lo fa notare Naomi O’Leary, corrispondente della nota agenzia stampa Reuters. Infatti, la giornalista ha provato a tradurre e spiegare per il pubblico statunitense le keywords presenti in modo più frequente nel linguaggio dei nostri politici. Ciò che le è venuto fuori è un simpatico articolo (ma sì, ridiamoci su) dal titolo «From “bunga bunga” to “pianists” – Italy’s political slang» e sottotitolo (traduco io): «Un’enciclopedia del gergo politico italiano ha messo in luce un mondo colorato e bizantino in cui legislatori e giornalisti parlano un linguaggio che non troverete in nessun comune dizionario».

Ed è vero, alcuni di questi termini non riusciremmo certo a trovali su un semplice dizionario, ma sono parole che ormai sono entrate ufficialmente a far parte del nostro linguaggio. Così, ho deciso di fare una prova e di suddividere questi termini in “categorie”, o meglio, in “isotopie”.

Se vi state chiedendo cos’è un’isotopia continuate a leggere, altrimenti, se ne avete già sentito parlare, passate al paragrafo successivo. In semiotica, un’isotopia (dal latino iso = uguale, topos = luogo) è «un insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura uniforme di una storia». Un’isotopia definisce un percorso di lettura omogeneo, poggiando sulla ripetizione di elementi semantici, in modo da indirizzare le attese del lettore. Come spiega Umberto Eco, la funzione delle isotopie è quella di facilitare l’interpretazione dei discorsi o dei testi e di individuare «la coerenza di un percorso di lettura».

In pratica, riprendendo le parole chiave tradotte dalla giornalista della Reuter e incasellandole nelle varie isotopie, è possibile farsi un’idea di come ci vedono al di là dei confini italiani, ovvero come viene considerato il linguaggio dei nostri politici e quali sono i temi di interesse maggiormente discussi nel dibattito politico.

Il linguaggio utilizzato riflette la politica odierna del nostro Belpaese? Eccome! Ecco infatti le isotopie che (ahimé) mi sono venute fuori: isotopia degli scandali sessuali, isotopia dell’inganno e dei privilegi, isotopia della crisi economica, isotopia dell’antipolitica.

Qui di seguito la lista delle parole con la traduzione in inglese proposta dalla giornalista (ma merita leggere tutto l’articolo qui):

1) Isotopia degli scandali sessuali

Bunga bunga (mysterious sexual ritual).

Olgettine (14 young women guests at parties at the home of the former prime minister).

2) Isotopia dell’inganno e dei privilegi

Inciucio (a deal done under the table).

Pianista (a pianst stretches out his arm to press the voting button on his colleague’s desk).

Compravendita (purchase agreement).

Casta (a clique of politicians keeping a grip on privilege and power).

3) Isotopia della crisi economica

Spread (Berlusconi declared in February 2013. «We lived happily for years without worrying about it. It’s an invention of two years ago»).

Esodati (exiled ones).

4) Isotopia dell’antipolitica

Grillini (little grillos or little crickets).

Celodurismo (neologismo nato dal grido del leghista Bossi, “Ce l’ho duro”, tradotto in inglese con “I have it hardism”).

Un bel quadro della politica italiana, no?!

Viva l’Italia (senza Berlusconi)

Giovedì 1 agosto durante la sentenza Mediaset della Corte di Cassazione, Silvio Berlusconi è stato condannato in via definitiva per frode fiscale a quattro anni di reclusione (di cui tre condonati per via dell’indulto e uno da scontare ai domiciliari o con l’affidamento ai servizi sociali). Inoltre è stato stabilito che i termini dell’interdizione dai pubblici uffici dovranno essere definiti in un altro processo d’appello (the neverending story).

Dopo la sentenza Mediaset, Berlusconi ha girato un video messaggio per parlare alla Nazione. Il frame (Palazzo Grazioli) è il solito, ma stavolta l’atmosfera è diversa, più tesa. Niente ironia o sorrisi. In circa nove minuti ha raccontato la storia della sua vita politica: dalla discesa in campo del ’94, passando poi dall’odierna sentenza, fino al richiamo dei «giovani migliori e le energie migliori» per rimettere in piedi Forza Italia. E il filo conduttore di questa storia, il fil rouge che intesse tutto il racconto, è la Magistratura. O meglio, «un vero e proprio accanimento giudiziario che non ha eguali nel mondo civile» (parole sue).

Questo è ciò che si chiama strategia di spostamento dell’attenzione. L’obiettivo è quello di distogliere l’interesse dei media dallo scandalo, rivolgendolo verso altre vicende. Ecco perché insiste tanto sulla Magistratura corrotta, i giudici di sinistra e «l’azione fuorviante della magistratura». E sempre la Magistratura viene definita come «un soggetto irresponsabile» la quale, grazie alla sua «azione ininterrotta», «fece cadere il governo nel ’94».

Ovviamente non è la prima volta che B. utilizza questo metodo: lo aveva già fatto durante il Rubygate o gli altri scandali sessuali, portando tutta l’attenzione sulla questione della privacy, cercando di difendere la sua sfera intima e personale.

In questo modo, Berlusconi si ritrova al centrocampo in posizione di attacco, non di difesa. Passa da accusato a vittima. Da colpevole a eroe.

Il video messaggio è una storia perfetta: c’è un antagonista (la Magistratura) e il paladino che è chiamato all’urgenza per risolvere i problemi che affliggono il Paese. E «in cambio di un impegno di 20 anni quale è il premio? In cambio dell’impegno che ho profuso nel corso di quasi vent’anni a favore del mio Paese, giunto ormai quasi al termine della mia vita attiva, ricevo in premio delle accuse e una sentenza fondata sul nulla assoluto, che mi toglie addirittura la mia libertà personale e i miei diritti politici». Già, non poteva certo mancare l’accusa di irriconoscenza che va ad accentuare ancora di più il suo status di vittima. Vittima dello stato, vittima della legge, vittima dell’intero Paese. Sembra un mondo coalizzato contro Mr. B., che tutto giri intorno a lui e che il resto non esista. Intanto l’Italia muore lentamente.

Infine, Berlusconi conclude il suo discorso con: «Viva l’Italia, viva Forza Italia». Uno slogan già sentito migliaia di volte. Uno slogan di una vecchia pubblicità ormai passata di moda.

L’Italia non è un Paese razzista

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A volte può capitare che il linguaggio politico sfoci nel turpiloquio, cioè il peggior esempio di comunicazione che può accadere. L’ultimo episodio riguarda la questione Calderoli-Kyenge: il vicepresidente del Senato, il leghista Roberto Calderoli, ha paragonato il ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge, a un orango. La vicenda è stata ripresa dai maggior quotidiani internazionali. Tutti, in Italia e all’estero, aspettano le dimissioni.

La trascrizione delle sue dichiarazioni qui di seguito:

«Il principio che noi abbiamo sempre portato avanti – aiutiamoli a casa loro – sia il principio più realista. E rispetto al ministro Kyenge, veramente voglio dirgli, sarebbe un ottimo ministro, forse lo è. Ma dovrebbe esserlo in Congo, non in Italia. Perché se in Congo c’è bisogno di un ministro per le Pari Opportunità per l’Integrazione, c’è bisogno là, perché se vedono passare un bianco là gli sparano. E allora, perché non va là? Che mi rallegro un pochino l’anima, perché rispetto a quello che io vivo ogni volta, ogni tanto smanettando con Internet, apro “il governo italiano”, e cazzo cosa mi viene fuori? La Kyenge. Io resto secco. Io sono anche un amante degli animali eh, per l’amor del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie, e tutto il resto. I lupi anche c’ho avuto. Però quando vedo uscire delle – non dico che è – delle sembianze di oranghi io resto ancora sconvolto».

Intanto, caro onorevole, il congiuntivo. «Non dico che lo sia» sarebbe stato molto più corretto. Ma si sa, voi della Lega non siete mai andati molto d’accordo con l’italiano. Ora però lasciamo stare il piano dell’espressione e concentriamoci su quello del contenuto. Il primo pensiero che viene a mente è: ma che figura ci fa l’Italia davanti al resto del mondo?

Onorevole Calderoli… onorevole a chi?! Questa sì che è un’offesa bella e buona! Se penso a lei (non dico che lo sia) mi immagino un politico coscienzioso e rispettoso dei diritti altrui. Questa non è soltanto una battuta razzista. È qualcosa che va a intaccare quelle condizioni sociali e quei diritti inalienabili delle persone, tra cui il diritto all’identità personale, il diritto all’immagine e alla reputazione. Il diritto ad esser trattati per come si è, senza ricevere insulti alla nazionalità, al colore della pelle, al sesso e a quant’altro. E invece, nel 2013, ancora pregiudizi, ancora divisioni tra “noi” e “loro”.

Cécile Kyenge, prima donna nera a diventare ministro. Abolire il reato di clandestinità e introdurre lo ius soli, questi i suoi obiettivi primari. Neanche a dirlo, ha trovato nella Lega i suoi nemici principali e più volte è stata vittima di insulti razzisti.

«L’Italia non è un Paese razzista», dice la Kyenge. Più che un’affermazione sembra un grido di speranza.

(Questo articolo è stato pubblicato anche su 055firenze.it con qualche modifica)

Le parole sono importanti

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Facciamo un esperimento, provate a fare quel che vi dico: non pensate all’elefante! Sì, dico, sul serio, non pensate all’elefante! Non ci riuscite vero? È davvero complicato chiedere di non pensare a qualcosa, perché, nonostante gli sforzi per scacciare l’immagine dalla mente, questa vi si presenterà nuovamente in testa. L’elefante sta lì, fermo, immobile, beffardo. Non se ne va. E sapete perché? Ce lo spiega George Lakoff, docente di scienze cognitive e linguistica all’Università di Berkeley, nel suo libro Don’t think of an elephant!. Prendendo come esempio un elefante per l’appunto, simbolo dei repubblicani americani, racconta come la destra sia capace di comunicare efficacemente i propri valori fondamentali, mentre la sinistra no. Tutto questo per dimostrare l’importanza delle parole e della comunicazione (soprattutto) nell’ambiente politico. Tutti, anche stando zitti e muti, comunichiamo, perché è impossibile non comunicare, ma la questione centrale è: che cosa comunichiamo?

Analizzando le campagne elettorali statunitensi, Lakoff scrive: «Ricordarsi di non pensare all’elefante. Se accettate il loro linguaggio e i loro frame e vi limitate a controbattere, sarete sempre perdenti perché rafforzerete il loro punto di vista. […] Essere attivi, non reattivi. Giocare all’attacco, non in difesa. Cercate di modificare i frame, ogni giorno, su tutti i problemi. Non limitatevi a dire quello che pensate. Usate i vostri frame, non i loro, perché corrispondono ai valori in cui credete».

In pratica, bisogna stare attenti a non limitarsi a negare i frame degli avversari, ma bisogna costruire sempre una propria prospettiva e cercare di evitare di appiattirsi alla visione del mondo degli antagonisti. In questo modo, comunicando efficacemente i propri valori e la propria morale, i democratici riuscirebbero a raggiungere più facilmente il proprio elettorato ed i risultati sarebbero sicuramente migliori di quelli sino ad oggi ottenuti.

Quando ho letto questo libro mi son subito resa conto di quanto potesse essere facile applicarlo anche alla politica italiana. Se Obama sembra proprio aver assimilato bene la lezione di Lakoff, Bersani, ad esempio, non ha nemmeno intravisto il libro per sbaglio (lo dimostrano la serie di sconfitte collezionate). Oppure prendiamo il Sindaco più in auge del momento, Matteo Renzi. Quando va ai talent show o sui rotocalchi a fare “Renzie” non sta presentando uno stereotipo tanto caro alla destra, cioè proprio a quell’opposizione che vorrebbe negare? La nostra sinistra sembra proprio che ci stia dicendo: “Mi raccomando, non pensate all’elefante!”.

Divisa, frammentata, disgiunta, senza una guida, a-centrica… c’è sempre qualcosa che non va in questa sinistra italiana. I politici ormai non fanno altro che andare in TV a dire quello che non va o quello che non hanno fatto. E si sa, per andare avanti (e magari vincere anche le elezioni) non basta una buona comunicazione, ci vogliono anche contenuti, proposte concrete, soluzioni. Ma certamente le parole sono importanti.

Quadrato semiotico del linguaggio politico

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Qualche esempio concreto?

Politici tradizionali: Bersani

Innovatori: Renzi

Agitatori: Bossi

Comici: Grillo

 

Ora provate voi a trovare il politico adatto per ogni categoria!